Smettere di aspettare (racconto breve)

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Sara era lì seduta, in quella sala d’attesa, si guardava intorno come se nulla più le appartenesse, come se fosse già molto lontana da tutto quello che la circondava. Lontana dal mondo, dalle persone che avevano fatto parte della sua vita, anche da quelle ancora presenti, le vedeva tutte come dei ricordi sfocati e lontani.

Si ricordava dei giorni felici, quando le tornavano in mente sorrideva, un sorriso arreso era il suo però, come quello di chi guarda un film e vede qualcosa di bello ma sa che non gli appartiene.

Non le importava se avrebbe aspettato tanto o poco in quella stanza dalle pareti grigie, non andava di fretta, non più. Non le importava nemmeno quale sarebbe stato il risultato degli esami. Era uguale, per lei era diventato tutto uguale, inutile, indifferente.

L’ebbrezza del disincanto…ecco perché l’aveva chiamata ebbrezza, perché nemmeno le tragedie lo erano più, riusciva a sorridere cinicamente persino di una pessima notizia.

Era come essere ricercati dalla polizia, sfuggire a mille inseguimenti in preda all’ansia e poi finalmente essere trovati, presi, arrestati. Ci si può finalmente arrendere, alzare le mani, riposarsi.

In lei non c’era più nessuna ansia di conquista, nessuna frenesia, nessuna ossessione. Non c’erano più le corse folli per raggiungere qualcosa, qualcosa che una volta raggiunto, perdeva di valore.

Per un periodo si era sentita molto stanca, stanca delle sconfitte, dei rifiuti, della gente stupida, ora non più. Non era più nemmeno stanca. Non gliene fregava più niente e questa era una sensazione meravigliosa! Forse era una specie di illuminazione e non come tutti dicevano qualcosa che le faceva male.

Vide entrare una signora molto ben vestita, aveva un cappotto di pelliccia e delle scarpe da far invidia a qualche milione di donne nel mondo, di quella marca costosissima e inavvicinabile. Le tornarono in mente tutti i vestiti e le scarpe che anche lei era riuscita ad accumulare per le grandi occasioni, uno in particolare, quello che le stava così bene e che probabilmente non avrebbe mai avuto la tanto attesa ‘occasione’ di indossare: “Tutto quel guardaroba sprecato…” pensò Sara guardando l’orologio, era già un’ora che aspettava ma il tempo le sembrava tutto sommato passare in fretta, forse proprio perché non le interessava lo facesse.

Aveva lavorato duramente, era cresciuta lontana da casa per studiare in quell’accademia di danza tanto famosa e rinomata in tutto il mondo. Lei avrebbe voluto fare la ballerina, ma poi quell’incidente alla caviglia aveva compromesso tutto, era stata dai migliori medici, ormai erano due anni che non metteva più le sue scarpette di pelle rosa, né quelle di raso con la punta di gesso che tanto le avevano fatto male i primi tempi. La danza le aveva sempre dato la forza di sopportare il resto, la solitudine, la lontananza da casa, anche le delusioni ricevute da chi aveva amato. “Un giorno avrò successo, diventerò una ballerina famosa e tutti quelli che mi hanno fatto del male vedranno a chiare lettere che io sono diventata ‘qualcuno’, io avrò il posto nel mondo!”. Questo si era ripetuta per anni, prima che quel sogno venisse infranto da una stupida caduta. Ma ormai se ne era fatta una ragione. Non era quello il problema, il problema forse era stato il sentirsi sempre fuori posto, sempre diversa dal resto del mondo e non trovare mai nessuno con cui poter davvero condividere gioie e dolori, qualcuno che lei ritenesse alla sua altezza. Ma anche questo era passato, ci aveva rinunciato, e nemmeno questo le interessava più. Quando le persone le facevano complimenti per la sua bellezza o la sua intelligenza lei se ne sentiva quasi infastidita, “A cosa mai può servire essere così perfetta se continuo a sentirmi sola e l’unico sogno che avevo l’ho perduto?” Questo lei pensava di fronte alle lusinghe che a volte riceveva. Sulla porta c’era scritto ‘studio medico specialistico’, aspettava i risultati delle analisi, negli ultimi tempi le era capitato spesso di svenire, aveva fatto degli accertamenti ed era possibile fosse affetta da leucemia. Quando lo aveva saputo era scoppiata a ridere, una risata isterica senz’altro, ma del resto era come dire: “Se volevate farmi arrabbiare rinunciate, io ho già perso ogni speranza da tempo…”.

In seguito si era detta che forse era una benedizione, magari sapere di dover morire le avrebbe ridato la voglia di vivere, si sa che in certi momenti si ricominciano ad apprezzare le piccole cose che prima ci sembravano così scontate. Ma questo non le era ancora successo. Si aprì la porta con il numero 3, uscì il suo medico invitandola ad entrare:

“Signorina si accomodi.” Disse soltanto. Sara entrò e si sedette sulla sedia destinata ai pazienti senza rispondere, poggiò la borsa sulla scrivania e guardò il dottor Poe fisso negli occhi.

“Signorina Blanche…Sara…si chiama Sara giusto?”

“Sì, mi chiamo Sara.” La stava prendendo alla larga, conosceva i medici, sicuramente non doveva dirle nulla di buono, il dottore esisteva continuava a guardare i referti con aria interrogativa, voltava le pagine e tornava a guardarla. Lei avrebbe voluto dirgli che non doveva farsi troppi problemi, poteva parlare liberamente, ma tanto non andava di fretta e quindi aspettò ancora finché il dotto Poe riprese la parola facendo un grosso respiro:

“Lei non ha nulla, è solo molto stressata, gli svenimenti dipendono esclusivamente da quello. Ho controllato tutte le analisi, le ho fatto fare tutti gli accertamenti possibili, lei ha una salute di ferro, piuttosto volevo dirle che invece ricontrollando gli ultimi esami di controllo alla sua caviglia…ecco sembra miracolosamente guarita, penso proprio che lei possa proprio tornare a ballare.”

Karen Lojelo

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