PRIMO ESTRATTO DA ‘L’EBBREZZA DEL DISINCANTO’

Amicizia, amore, odio, indifferenza:realtà, fantasia o scherzi?Senza certezze, vivere infelici o con l’ebbrezza del disincanto?

Vorrei trovare la forza

di uscire dal gorgo,

di uscire dal gregge,

di uccidere i miei nemici

e di prendere l’ultimo treno

di quiete ed oblio,

senza mendicare

felicità negate,

rincorse a vuoto

di realtà scortesi.

Vorrei trovare la forza

di dimenticare i ricordi,

neon intermittenti

di serate umide,

colori sbiaditi

di angosce ripetute,

ibride schermaglie

di astrazioni indifferenti,

rumori di fondo

d’inconsistenti déjà-vu.

Giampaolo Lojelo

A maggio del 2010 ripensando ad un aforisma che mio padre aveva scritto moltissimi anni prima, e, che forse all’epoca non avevo capito appieno, presi carta e penna e scrissi, prendendone una parte, il titolo: L’ebbrezza del disincanto, forse in quel momento avevo veramente capito cosa significasse;così è nato il titolo e poi è venuta la storia.

‘Pierre Dumas era un uomo che aveva passato la vita aspettando qualcosa che non era arrivato. In realtà non aveva mai aspettato nulla, ma il suo modo di vivere dava l’idea di qualcuno che continua a rimandare le occasioni che gli si presentano, nell’attesa di qualcosa di meglio. Quel meglio non sarebbe arrivato perché per lui non esisteva, non credeva neppure di meritarsi qualcosa. Lui, spesso, entrava nella vita degli altri per rendersi utile e vi rimaneva fino a quando l’altro non pretendesse di fare la stessa cosa.

Pareva circondato da una sorta d’alone di mistero ma in realtà era solo un fuggitivo, uno che fuggiva da se stesso; un uomo silenzioso, schivo, solitario, disincantato, così forse appariva a chi lo conosceva meglio.

Aveva superato la quarantina già da qualche anno, non si era mai sposato, viveva da solo in un appartamento troppo grande per lui, in uno dei quartieri più ambiti della città, ma non era ricco, era soltanto un professore di liceo,che insegnava lettere e filosofia. Un tempo aveva sognato di fare lo scrittore, ma la sua autostima era talmente bassa che in realtà non lo aveva nemmeno inseguito quel sogno, come non aveva inseguito in fondo mai nulla. Inoltre era spesso assente dal lavoro per quanto lo amasse, a causa della sua indolenza o forse sarebbe meglio chiamarla tristezza patologica, che lo spingeva, a periodi alternati, a chiudersi ancora di più in se stesso.

La sua casa era sommersa da libri, vecchi dischi e quadri. Un arredamento vecchio stile, con mobili antichi e antichi accessori, come il giradischi anni settanta ancora funzionante che teneva davanti alla sedia a dondolo. Nemmeno i mobili aveva scelto lui, non avrebbe mai avuto la pazienza di farlo, aveva semplicemente lasciato la casa come l’aveva trovata. Abitudinario quasi all’esasperazione, soffriva d’insonnia e passava le notti a leggere e rileggere libri che sapeva a memoria o scrivendo favole per bambini, l’unica evoluzione che aveva avuto la sua velleità artistica era stata quella di scrivere delle favole, che grazie all’interessamento di un conoscente, venivano pubblicate da un piccolo editore e avevano il loro, seppur minimo, mercato. Al mattino, verso le cinque di solito, riusciva a prender sonno. Nei periodi in cui lavorava era costretto ad alzarsi alle sette per andare a scuola e rimanerci fino alla fine delle lezioni. Quando non lavorava, si svegliava alle dieci in punto e scendeva al caffè sotto casa, non beveva mai caffè, ma ordinava ogni mattina, una tazza di the all’arancia; poi faceva un piccolo giro del quartiere, comprava il giornale e tornando a casa si fermava all’angolo a prendere frutta fresca e una baguette calda che puntualmente mangiava strada facendo.

Sapeva cucinare ma lo faceva di rado. Preferiva di solito prepararsi delle omelette o delle insalate. Prima di salire in casa, acquistava ogni volta da Jean, il fioraio che si trovava proprio all’entrata del suo palazzo, un mazzo di fiori da mettere al centro del tavolo. Probabilmente lo faceva più per simpatia nei confronti di Jean che per amore dei fiori. A mezzogiorno era sempre di ritorno, un pasto frugale, spesso consumato davanti al telegiornale o guardando fuori dalla finestra, piuttosto che seduto a tavola. L’ordine non era il suo forte, infatti c’erano più piatti nei ripiani della libreria o sul vecchio giradischi, che nella credenza, ed era fortunato se si era ricordato di averceli messi puliti, perché sovente per poter mangiare era costretto a lavare almeno un piatto preso dalla pila dentro il lavandino. Il pomeriggio si stendeva sul letto, con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto, come implorando una qualche illuminazione. Alle due si spostava davanti alla sua finestra preferita, quella del salone che dava sulla piazza, e osservava da lì il mondo. Era capace di passare così tutto il pomeriggio. In fondo questo rispecchiava a pieno la sua personalità, era uno che il mondo lo era quasi sempre stato a guardare. E lo avrebbe fatto anche se la sua finestra non avesse affacciato sulla piazza, forse, più bella del mondo: Montmartre. Nonostante la sua apatia riconosceva la fortuna che aveva di abitare lì in uno dei quartieri più suggestivi di Parigi. Un piccolo gioiello con i suoi palazzi vecchi e bassi, con le piccole mansarde dove viene naturale immaginare pittori matti dediti all’oppio e all’assenzio mentre ritraggono modelle lascive. Un luogo rimasto fermo nel tempo, lontano dal rumore del mondo moderno, lontano dai grattacieli e dall’architettura squadrata del ventesimo secolo.

Nella sua mente c’era come una piccola mappa disegnata con tutte le scalinate, i vicoli, i piccoli negozi di fiori che sembravano minuscole boutique, gli artisti di strada con la bombetta in testa che suonavano vecchie canzoni francesi dentro i ristoranti, i quadri esposti in vendita ad ogni angolo come una galleria d’arte perenne. L’intero quartiere emanava quell’aria trasognata da antico borgo dove ancora si respirava l’aria di un tempo passato, carico di speranze, di sogni e di illusioni rimaste intatte, nel quale era facile per lui rifugiarsi. Pierre amava tutto questo: I vecchi lampioni in ferro battuto gli ricordavano le pellicole in bianco e nero, i bistrot che profumavano di legno antico, i negozi colorati di souvenir, l’odore delle baguette, delle omelette e le bottiglie di sidro esposte fuori dalle tavole calde: un tempio in cima ad una grande città, dentro di lei ma fuori da tutto. A Pierre piaceva guardare quella piazza, gli piaceva vedere soprattutto gli sguardi delle persone, immaginare le loro vite e i loro pensieri in quel piccolo angolo di mondo incastrato in cima ad una serie di lunghissime scalinate, gli piaceva guardare la funicolare che saliva la collina fino ad arrivare lassù quasi fosse la cima del paradiso. Il Sacro Cuore, bianco come la neve. Immersa nel verde, la Basilica, a parer suo, regnava sopra Parigi. Lui aveva la fortuna di poterla osservare dalla finestra della sua camera da letto, questa costruzione tondeggiante e armoniosa di straordinaria bellezza con le sue cupole, in un certo qual modo lo affrancavano dalle sue ansie. Abitava lì, in quello che era stato il centro della vita bohémien durante la belle époque, oggi divenuto uno dei quartieri più elitari. A Pierre sarebbe stato impossibile comprare una casa con quello che guadagnava. La sua casa era un bene di famiglia tramandato di generazione in generazione, pare che la prima proprietaria dell’appartamento fosse stata una prostituta, divenuta poi l’amante di un pittore famoso che le intestò la casa. A Pierre era arrivata in eredità dopo la morte di uno zio che non aveva avuto figli.

Fu da quella finestra che vide per la prima volta lei, la ragazza dai lunghi capelli.’

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